LA GUERRA A TREMILA METRI SULLA FRONTE NORD DELL'ORTLES

L'estremo settore occidentale della nostra fronte di guerra, formato dal Gruppo Ortles-Cevedale che, attraverso il Passo dello Stelvio e la Valle del Braulio, si rinsalda alla catena principale delle Alpi, costituiva di per sé una formidabile barriera di colossi montuosi ricoperti di nevi e di ghiacciai, tutti superiori a 3.000 m., di difficile accesso, così da un versante come dall'altro, con un solo valico carreggiabile, quello dello Stelvio (2757 m.), con nessuna mulattiera e pochi sentieri difficili e impervi.

Questo elevato gruppo, il cui spartiacque, formato da poderosi massicci con difficili valichi, corre in direzione generale nord-ovest-sud-est, determina con la direzione meridiana del Tabaretta, le testate delle valli di Trafoi e di Sulden. Gli imponenti bacini superiori di queste due valli - limitati ad ovest dal contrafforte del Gruppo dell'Umbrail che dal Pizzo Garibaldi (ove si congiungevano i tre confini politici: italo - austro - svizzero) prosegue in direzione nord, ed a a oriente dal gruppo Vertain-Angelus, che si distacca dal nodo orografico del Cevedale - presentano le vere caratteristiche dell'alta montagna: linee di creste sottili e di difficilissima percorribilità, erte pareti di roccia, ampi ghiacciai che generano una ricca ed estesa rete geografica.
E' questa nel complesso la zona più alta (culminante con il monte Ortles a 3905 m.) ove si combatté la prima guerra mondiale.
Né meno maestoso è il versante opposto che costituisce la testata della Val Trafoi e della Valle di Solda (valli ripide e incassate), della Val Martello (dalla cui testata in zona Cevedale si accede, attraverso il passo omonimo, in Val Cedech e in Valfurva), e delle valli trentine di Venezia, Lamare e del Monte.
Il passare da un versante all'altro di questa formidabile cerchia di creste e di ghiacciai richiedeva particolare allenamento alpinistico: la mancanza di vie praticabili, l'asprezza dei valichi, la grandiosità dei ghiacciai difficili e infidi, il grande dislivello tra i passi da valicare e il fondo delle due valli percorse da carrozzabili o da ferrovie, l'atesina e la valtellinese, toglievano ogni possibilità d'azione poderosa, d'invasione in forze, così per noi come per gli austriaci. Così fu che per tutto il periodo della guerra, a questo settore non fu assegnato nessun altro obiettivo, che non fosse di sola difesa, e se poche azioni furono tentate da una parte e dall'altra, non ebbero altro scopo che di migliorare ciascuna le proprie posizioni, di vigilare sui movimenti avversari, e di minacciare le valli e gli abitati del nemico. Lo scopo difensivo e la natura stessa delle posizioni da difendere non richiedevano né rendevano possibile largo impiego di forze.
Tolto il valico dello Stelvio non esiste nessun sentiero che conduca dall'uno all'altro versante; si sale per minuscole carreggiabili che poi si tramutano in paurosi sentieri da cacciatori di camosci, che salgono lungo il bordo di burroni, all'ombre gelide delle gole, per poi disperdersi in aspre balze, in creste scintillanti, in selle ghiacciate e impedite da crepacci.
Le difese apprestate dal nemico tra il Pizzo Garibaldi e il Cevedale avevano lo scopo di impedire alle nostre truppe di penetrare nell'Alto Adige attraverso le tre principali valli che vi confluiscono: Trafoi, Sulden e Martello.
Per un complesso di circostanze, il nemico riuscì a prevenirci, nel primo anno di guerra, con l'occupazione della linea di displuvio compresa tra il confine svizzero e l'Hintere Madatsch e tra la Königspitze e il Cevedale, assicurandosi in tal modo il solido possesso dei due valichi più importanti della zona: Stelvio e Cevedale.
Le nostre truppe si impadronirono invece dello spartiacque nella parte mediana e più aspra, compresa tra la Trafoier Eiswand e la Königspitze, che ha dominio ottimale sulle valli di Trafoi e di Sulden.
Già nell'estate del 1915 gli Austriaci riuscirono a occupare il Monte Scorluzzo dominante lo Stelvio e a tenerlo fino al termine del conflitto. Il possesso di quel baluardo assicurava al nemico un'assoluta superiorità sugli italiani: tutte le posizioni, dall'Umbrail al Cristallo, dalla Bocca del Braulio a Trafoi erano dominate e vigilate da quell'osservatorio.
A questa impresa fecero seguito altre importanti conquiste da parte degli Austriaci come quelle del Monte Cristallo, della Punta Tuckett, della Madatschspitzen, della cima Trafoi (ma solo per tre giorni), della Königspitze, e l'occupazione dell'Ortles con trasporto di cannoni in vetta.
Gli italiani risposero occupando, su questo tratto nord del fronte dell'Ortles, la Punta Thurwieser, la Cima Trafoi, l'Eiskögele, l'Ortlerpaß, il Passo Alto ed approntarono la loro posizione più solida al Passo dei Camosci. Quest'ultimo costituiva in quel settore, il baluardo più importante degli italiani, impedendo agli Austriaci qualsiasi tentativo di avanzare oltre, verso sud. Inoltre distrussero con tiri sistematici anche l'albergo Ferdinandshöe al Giogo dello Stelvio e la capanna Schaubach.

La guerra si svolse con un'alternanza di occupazioni di vette strategiche da parte dei due contendenti, alle quali si frapposero momenti di stallo. Di anno in anno le pressioni si intensificarono obbligando i soldati a fatiche sempre maggiori per tenere testa e non cedere. Non si trattava solo di una lotta uomo contro uomo, ma anzitutto di una gara per la conquista e l'occupazione stabile delle cime. Ogni alpinista e soldato pratico di montagne sapeva benissimo che strappare al nemico una vetta di cui si era impadronito, costituiva un'impresa straordinariamente ardua, pressoché impossibile. Approntare una posizione ad altissima quota, come sull'Ortles o sul Gran Zebrù, e tenerla occupata stabilmente in guerra, costava sacrifici enormi; ciascun uomo lassù doveva superare se stesso per adempiere a quel compito.
Si costruirono vie d'acceso incidendo migliaia di gradini nel ghiaccio vivo; bisognava portare a spalla sulle cime i materiali e le provviste, allestire ricoveri e caverne, stendere fili del telefono e così via. Solo in seguito si alleggerì la fatica con le teleferiche.
Numerose furono, nel corso della guerra, le gallerie scavate sia dagli italiani, sia dagli austriaci nel ghiaccio vivo, per una lunghezza complessiva di oltre 11 Km., con lo scopo di raggiungere inavvertiti le postazioni avversarie, onde neutralizzarle. Fra i tanti episodi, si ricorda quello accaduto il 17 marzo 1917 in una galleria del Monte Cristallo. Gli italiani tenevano l'anticima del Cristallo e il fuoco delle loro mitragliatrici batteva insistentemente le posizioni austriache dello Scorluzzo e della Nagler. Bisognava raggiungere la vetta del Cristallo per ributtare gli Alpini. Questi ultimi volevano nel contempo raggiungere il medesimo scopo: impadronirsi della cima più alta. Dal momento che neppure il migliore degli alpinisti avrebbe potuto tentare l'impresa in arrampicata, senza farsi scorgere, italiani ed austriaci procedettero nello scavo di gallerie nel ghiaccio. Per una stranissima coincidenza i tunnel ad un certo punto si incontrarono. Cadde l'ultimo diaframma e i soldati si trovarono faccia a faccia. Scoppiò una scaramuccia che provocò alcuni morti e feriti, poi sia gli italiani sia gli austriaci si ritirarono, facendo saltare con la dinamite i rispettivi tunnel.

Una delle vie attrezzate di maggiori dimensioni e più assicurate, fu realizzata dagli italiani: partendo dal ghiacciaio dello Zebrù, arrivava fino in vetta alla cima Thurwieser. La sicurezza era conseguita mediante corde fisse, in certi punti doppie e triple., per una lunghezza di 3000 m. e che superavano un dislivello di oltre 700 m..
Giustamente queste vie attrezzate, in cui erano inserite anche numerose scale di corda, venivano chiamate "scale per il cielo".

Quando si trattava di occupare per primi una cima importante, non ci si poteva tirare indietro al sopraggiungere del maltempo, del gelo, delle valanghe, altrimenti vi si sarebbe attestato il nemico; chi in quel duello perdeva, andava incontro alla morte.
E' fuori dubbio che le valanghe rappresentano un grave pericolo e provocano la perdita di vite umane in tutte le zone di montagna con importanti precipitazioni nevose.
Quelli che hanno sofferto di più per le valanghe sono gli abitanti della catena alpina, per il semplice fatto che nessun'altra regione soggetta ad abbondanti nevicate è così densamente popolata. Nelle Alpi la "morte bianca" ha raccolto e tuttora raccoglie un'abbondante messe di vite umane.
Matthias Zdarskj, pioniere dello sci e istruttore delle truppe alpine autriache, soleva affermare che: "la neve non è un lupo sotto una pelle di pecora, ma una tigre in panni d'agnello".
Nella prima guerra mondiale le valanghe furono causa di gravi perdite umane.
Basterebbe ricordare che nel giorno fatale, dal 12 al 13 dicembre 1916 (chiamato da allora la "Santa Lucia nera"), si ebbero in 24 ore, sull'intero arco alpino, circa 10.000 vittime di valanghe.
Risulta dal diario di un bormiese che sul fronte Stevio-Gavia vi furono, in quel periodo, 127 travolti dei quali 56 morti.
Nel suo libro "La guerra tra rocce e ghiacciai" sul fronte italo-autriaco, Langes scrive: "Il più spaventoso nemico dei soldati, che sempre incombeva sopra di essi, in alta montagna, era la valanga ... La violenza delle valanghe distruggeva tutto, ricoveri, baracche, teleferiche; travolgeva in basso uomini, materiali e cannoni ... Questo anche perché, con grande inesperienza, erano stati edificati moltissimi ricoveri sulla traiettoria ordinaria delle valanghe, mettendosi proprio "in bocca al lupo".
W. Schmidkunz nel suo libro "Kampf über die Gletschern " "Battaglia sui ghiacciai" scrive: "La morte bianca assetata di sangue provocò vittime innumerevoli sulle montagne, spazzando via intere baracche affollate; ardite pattuglie in esplorazione e colonne in marcia furono sepolte dalla furia delle valanghe. Centinaia e centinaia furono gli uomini afferrati dalla bianca strangolatrice. Qua e là qualcuno veniva presto soccorso, mentre altri rimanevano per un intero giorno di terrore con entrambi i piedi nella tomba. Ma questi erano rari casi. I torrenti nevosi sono come il mare profondo: difficilmente restituiscono le loro vittime ancor vive. I più valorosi dei valorosi sono sepolti dalla pesante e avvolgente coltre della valanga. Non è la morte gloriosa per mano del nemico. Io ho visto i cadaveri. E' un modo miserevole per morire, un penoso soffocare in un elemento avverso, un'ingloriosa perdita per la patria."

Le vittime di questa difficile guerra su questo fronte sarebbero state di più se le pattuglie non fossero state condotte da uomini che durante la vita "borghese", fossero essi italiani o austriaci, facevano le guide o comunque sui monti trovavano di che sostenere se stessi e le loro famiglie. Gente esperta, che molte volte si conosceva e che in diversi casi prima della guerra era amica, condividendo gli stessi pericoli e facendo i medesimi lavori: boscaiolo, cacciatore, pastore, guida alpina e contadino.

 


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